Il 10 aprile 2024, presso Palazzo d’Azeglio – Fondazione Luigi Einaudi si è tenuto il dialogo Generazioni a Confronto – La città Open: uno spazio tra il locale e il globale. Protagonisti Piero Bassetti, nella duplice veste di presidente di Globus et Locus e della Fondazione Giannino Bassetti, Iolanda Romano, architetto ed esperta in mediazione dei conflitti pubblici e Fabrizio Valpreda, architetto, designer e professore di Design presso il Politecnico di Torino insieme a un gruppo di studenti del corso di Design Sistemico del Politecnico di Torino, e altri giovani che desideravano partecipare al dibattito di idee.
L’evento si inserisce nel ciclo di dibattito Generazioni a Confronto, iniziativa organizzata dall’Associazione Globus et Locus in collaborazione con Fondazione Giannino Bassetti, che ha come obiettivo quello di portare al dialogo sulle grandi domande della contemporaneità giovani e adulti. L’appuntamento del 10 aprile ha posto attenzione al tema dell’Open Design focalizzandosi sulla città e sulla co – progettazione degli spazi urbani.
Il dibattito è stato aperto dal professor Valpreda che ha introdotto il concetto di Open Design, processo in cui il designer è un soggetto inserito in una rete collaborativa. Principio alla base dell’Open Design è quello di progettare oggetti, prodotti e servizi con un approccio innovativo rispetto alla classica produzione di matrice industriale. L’idea che origina questa nuova modalità di creazione si poggia sull’utilizzo di nuove tecnologie ad alta accessibilità, utilizzabili ovunque nel mondo. L’Open Design si fa, inoltre, portatore di un forte senso di localizzazione: i percorsi di progettazione e produzione open possono essere replicati in luoghi di dimensioni contenute, anche in città. Questo favorisce ed incentiva l’utilizzo di spazi della città abbandonati o che magari necessitano di un riposizionamento. Valpreda ha illustrato il caso di Fab Lab Torino come luogo di produzione creativa che ha riutilizzato e reinterpretato spazi destinati in origine all’uso ferroviario.
Tra i concetti cardine presenti nell’Open Design, precisa Valpreda, spicca quello della partecipazione. Un processo di progettazione Open prevede che chiunque sia in grado di accedere alla tecnologia e a spazi attrezzati possa partecipare, in modo aperto e trasversale, alla creazione, anche in assenza di specifiche competenze. “Non c’è un’abitudine diffusa a dare attenzione a questi percorsi proprio perché il sistema tradizionale di produzione a cui siamo abituati e la diffusione del concetto di proprietà intellettuale è fortemente radicato. Questo nuovo tipo di prospettiva va insegnata, non solo dal punto di vista teorico ma anche dal punto di vista pratico” – ha concluso Valpreda.
La Dott.ssa Romano ha proseguito il discorso introducendo il concetto di progettazione partecipata. Quando si parla di coprogettazione urbana ci si trova di fronte alla realizzazione di uno spazio comune abitato da diversi individui, ciascuno portatore delle proprie esigenze. Se si prende a esempio il solo caso della mobilità urbana, ciò che emerge è che ogni individuo ha diverse esigenze di movimento all’interno del tessuto cittadino. “Lo spazio della città è uno spazio per definizione conteso, abitato da conflitti attuali e potenziali. Quando si vuole cambiare qualcosa dello spazio della città c’è bisogno di applicare una serie di metodi partecipativi condivisi per scegliere accuratamente come modificare, nell’interesse e nelle esigenze di tutti, l’assetto urbano di una città” – ha aggiunto Romano. A sostegno di questa prassi è stato approvato il DPCM n. 76 del 10 maggio 2018: Le opere sottoposte a dibattito pubblico. Si tratta di un modello di democrazia partecipativa destinato agli interventi maggiori che prevedano un costo stimato superiore a 500 mln. di euro, con l’obiettivo di rendere trasparente il confronto con i territori sulle opere pubbliche e di interesse pubblico, attraverso una procedura che consente di informare e far partecipare le comunità interessate.
La Dott.ssa Romano in conclusione ha portato all’attenzione dei ragazzi il dipinto “Allegoria ed effetti del buono e del cattivo governo” di Ambrogio Lorenzetti. In un particolare dell’opera, si rappresenta un gruppo di cittadini legato insieme da una cordicella rossa. “Il simbolo – argomenta la Romano – sta ad indicare la partecipazione, la collaborazione e il potere della collettività utile alla buona organizzazione della città. Se associassimo questa cordicella agli strumenti contemporanei di progettazione urbana, voi che siete la generazione del futuro cosa fareste e in che circostanze provereste ad utilizzare questa cordicella?”
La parola è poi passata a Riccardo Giachi, neolaureato in Design Sistemico presso il Politecnico di Torino, che con il suo intervento si è focalizzato su come il principio dell’Open Design sia basato sulla condivisione del potere con una rete più ampia, ponendo attenzione alla responsabilità e al pensiero critico di chi partecipa al processo. “L’Open Design apre uno spazio a quello che viene definito il fare critico e ci insegna una sorta di moralità nel creare bene e nel produrre le cose” – ha aggiunto. Riccardo riprendendo il concetto della co-progettazione urbana, ha sollevato alcune criticità: “Ho avuto modo di osservare che spesso questi processi generano dissensi e contestazioni, diversamente dai processi generati in Open Design. Questo perché un approccio di tipo Open lascia maggiore spazio, proponendo risultati aperti e modificabili, quindi meno esposti al dissenso. Qualcosa di similare ai prodotti di Open Design in città potrebbero essere degli spazi spontanei, differenti da luoghi che cercano una fissità o una stabilità. Talvolta lasciare libero sfogo ai conflitti, accogliendo il disordine, penso possa essere il tassello che manca al cambiamento di un paradigma rispetto al tema della progettazione urbana”.
Il discorso si collega a un tema ben espresso nel volume Progettare il disordine di Pablo Sendra e Richard Sennett: “Una città vitale e aperta non è frutto del caso. Vi sono luoghi in cui le attività improvvisate e l’interazione sociale non si concretizzano perché la rigidità dell’ambiente urbano non permette che questa improvvisazione abbia luogo, ed è necessario che il disordine venga progettato”.
Secondo il Prof. Valpreda il concetto di disordine può essere considerato valido strumento attraverso il quale cogliere opportunità inedite. “Il disordine può essere letto come un valore per cui dove c’è uno spazio vuoto, una direzione mai percorsa, un luogo in cui nessuno è mai andato, possiamo trovare trasformazione e allora la parola innovazione ha davvero un forte significato” – ha aggiunto.
L’intervento di Yuri Sanni, laureato in Design Sistemico, ha poi aperto al tema identitario legato ai processi di co – progettazione urbana sollevando una questione: “Il senso di appartenenza è uno degli elementi più rilevanti nella creazione di spazi cittadini. Quanto la riprogettazione di spazi riesce a mantenere un senso di appartenenza nelle comunità che li abitano?”
Una delle pratiche fondamentali alla buona progettazione collettiva della città è l’ascolto attivo, in modo da intercettare esigenze e necessità delle comunità che abitano i luoghi sui quali lavorare. Nella progettazione urbana esiste il concetto di appartenenza e appropriazione. “L’appartenenza deriva dalla storia di un luogo, l’appropriazione è legata a spazi di nuova generazione. Quando si lavora su una riprogettazione di uno spazio in cui è diffuso il senso di appartenenza, è necessario mettersi in dialogo profondo con i diversi comitati che lo abitano e lo vivono” – interviene la Dott.ssa Romano.
Il Presidente Piero Bassetti ha riportato la discussione sul tema del potere sottolineando come quanto più il comportamento sociale diventa complesso, più la tentazione di non partecipare attivamente alla buona gestione del governo si amplifica. “Una delle mie preoccupazioni è quella di vedere giovani capaci che di fronte alla difficoltà di capire come funziona la macchina del potere, si chiudono in loro stessi e ci rinunciano” – ha aggiunto – “Siamo stati abituati ad andare a scuola sapendo che i problemi che i professori ci insegnavano erano questioni risolte e che bisognava capire come funzionavano le soluzioni già raggiunte. Oggi, invece, qualunque individuo si trova di fronte a problemi che non sono stati ancora risolti”. Il Presidente Bassetti chiude il suo intervento lanciando una prima provocazione alla platea: “Qual è la difficoltà che oggi un giovane incontra quando gli si chiede di partecipare attivamente di lavorare a problemi ancora irrisolti”.
Il Prof. Valpreda introduce nel dibattito l’immagine del perno rotondo nel buco quadrato, utile a spiegare la gestione dei problemi nella contemporaneità. L’errore che spesso si commette, spiega Valpreda, è quello di affermare che si è in possesso di una soluzione utile a far entrare un perno rotondo in un buco quadrato. “I problemi sono sempre nuovi, è l’atteggiamento che noi poniamo rispetto a questi problemi, con il nostro bagaglio di esperienze, che fa la differenza. Solo se siamo disposti all’idea di fare sperimentazione e di cercare di capire come, mantenendo l’identità del perno rotondo nel buco quadrato, riusciamo a farli dialogare l’uno con l’altro” – ha concluso Valpreda.
Carolina Marchetti, laureanda in Design Sistemico, interviene per condividere una sfida che ha incontrato frequentemente durante il suo percorso di progettazione: la fiducia, componente importante nel lavoro. Carolina aggiunge “In quanto progettista posso dire che la difficoltà maggiore è quella di instaurare un rapporto di fiducia con i portatori di interesse, soprattutto quando si parla di sostenibilità”.
“I problemi complessi non si possono spiegare e vanno affrontati con un percorso conoscitivo che deve mettere a fuoco le relazioni fra gli elementi perché sono mutevoli. Un problema come il cambiamento climatico è complesso perché sono tanti fattori collegati fra loro. L’invito a voi giovani è di esplorare i problemi complessi, utilizzando la conoscenza ma facendo attenzione che questa conoscenza non diventi un blocco per esplorare punti di vista diversi” – ha aggiunto la Dott.ssa Iolanda Romano.
Riccardo Giachi ha poi aggiunto: “Il confronto intergenerazionale è fondamentale per costruire e rafforzare connessioni. Noi giovani abbiamo più forza e possibilità di essere attivi, mentre le generazioni più mature hanno un quadro generale delle problematiche, una visione di insieme. Il dialogo e la fiducia reciproca permettono a noi giovani di non essere guidati esclusivamente dall’istinto o dall’ idealismo, che talvolta può portare a niente”.
L’evento ha mostrato l’importanza del confronto intergenerazionale nel processo di costruzione e rafforzamento del pensiero critico sui temi affrontati nel dibattito. La partecipazione dei giovani e l’interesse nel proseguire la riflessione, in dialogo con esponenti senior, riconosce l’importanza di nutrire un dialogo utile a generare maggiore consapevolezza sulle sfide future.